Cristina Campo appartiene a due mondi. Vittoria Guerrini (Bologna, 29 aprile 1923 – Roma, 11 gennaio 1977) assume su di sé, già dal 1950, il nome simbolico di Cristina Campo, lo indossa come “una tunica bianca, per entrare in letteratura come si entra in religione” (De Stefano, Belinda e il mostro). Cristina in nome del Figlio, Campo in memoria del terribile sterminio appena concluso. Due volti si lasciano intravvedere: uno tutto umano, con lo sguardo rivolto alla ricerca instancabile della bellezza e della sprezzatura, si discosta, e si fonde al tempo stesso, con l’altro, il volto attento e tormentato da una costante tensione verso una dimensione liturgica, di trascendenza nel rito, un rito di “cristiana senza Chiesa”. Entrambi sono volti di un’imperdonabile, come lei stessa afferma in un suo saggio, poiché imperdonabile è il poeta che ricorda all’uomo quel che ha perduto, colui che non è storico del proprio tempo, ma testimone di ciò che è immutabile: “questo aereo e terribile peso – silenzio, attesa, durata – l’uomo l’ha rigettato da sé” (Campo, Gli imperdonabili). Nel tentativo di rappresentare le parole e le memorie di Vittoria/Cristina potremo per qualche istante scrollarci di dosso il fardello del nostro tempo della corsa inarrestabile allo sviluppo, delle faticose eredità con cui la nostra generazione deve quotidianamente fare i conti, per volare, come in una fiaba sacra, sul tappeto magico che Cristina ha costruito durante la sua giovinezza. Come compagna assente, amica immaginaria chiamata a condividere uno spazio infinito, cercheremo di farla riaffiorare attraverso sfumature leggere e pennellate di colore, per riscoprire quel senso di pacifica, essenziale immobilità di cui, in questi tempi difficili, abbiamo così bisogno.