Nelle due vaste sale dello storico edificio del secondo Seicento veneto, fatto costruire dal ricco e colto Lorenzo Giustinian e circondato oggi dal grande parco ottocentesco, i due artisti Scavezzon e Zamengo, amici nella vita, si incontrano come già avvenuto in precedenti collettive, esponendo - in questa occasione separatamente - una raccolta ragionata dei più recenti lavori, alcuni pezzi inediti, alternati a produzioni passate, in un’operazione dal lontano sapore antologico.
Nell’evento di Mirano i due artisti sono chiamati a condividere il luogo e l’attimo simbolico in cui l’opera, dalla sfera intima d’origine si ri-colloca nel sentire collettivo attraverso la sua scoperta e la sua fruizione, il momento in cui la finitezza del materiale intraprende infiniti sviluppi di sussistenza e valenza autonoma, lavorando e allestendo però lo spazio nella più totale soggettività e indipendenza, prescindendo da ricerche forzate di punti d’intesa o spunti di dialogo. Al pubblico il compito di rileggerne i percorsi artistici individuando o intuendo le molteplici intersezioni alle quali le rispettive produzioni, intersecandosi o giustapponendosi o opponendosi, potenzialmente possono dare origine.
La linea espositiva della non ricerca di un tema comune immediato riflette la necessità di un rapporto con l’oggetto artistico forzatamente e consapevolmente individualistico, sia nella sfera della sua realizzazione sia in quella più finemente intellettuale della sua decodifica e interpretazione; soggettivo è dunque l’artista nella formulazione dell’atto creativo e nel compimento del gesto tecnico ma anche e soprattutto - mutuando il termine dal gergo cinematografico – un connotato qualitativo dello sguardo (mentale) che segue l’azione e la narra, stabilendo aprioristicamente i valori critici, i tagli compositivi che ogni testimonianza, verbale o non verbale, richiede per realizzarsi come esperienza letteraria e aspirare quindi al raggiungimento di valori universali.
Scavezzon e Zamengo, diversi per tecniche e produzione, avvicinano con i lavori qui presenti il topos della Storia, intesa come nucleo conoscitivo culturale e come imprescindibile substrato cultuale dell’origine del progetto vivere/conoscere/rappresentare; dalla presa di coscienza di questa dualità – la storia dell’uno rapportata alla storia dei molti - dipartono complesse digressioni speculative nei confronti degli spunti conflittuali (il paradosso dell’originalità nei confronti del già detto) o pacifici (l’assioma post-moderno della ri-nascita del segno attraverso la sua ri-contestualizzazione) che un rapporto simbiotico ma dinamico, come quello dell’artista calato nella cronologia del divenire, deve riconoscere, accettare e interpretare.
Paolo Zamengo affronta il peso della propria Storia specifica, del vissuto che negli anni ha condotto l’artista a eleggere con chiarezza i limiti del cercare e il codice linguistico da adottare. Un principio di fede laica ed esperienziale, versione de-sacralizzata del dogmatico credere cristiano, sostituisce l’essere umano all’essere divino, giungendo ad intravedere nel corpo fisico e carnale la stessa potenziale spiritualità del corpo sacro (il dipingere iconico), dottrina mondana che per quanto corruttibile diviene certa e tangibile presenza; il corpo emerge allora stabile e stante ma si fraziona e si seziona in parti indistinte dell’insieme, caotiche eppure unitarie, oltre l’immagine preordinata che l’artista riconosce, pre-vede per noi e sceglie di farci guardare.