Marcello, scrittore mancato, che lavora per un giornale scandalistico con la scorta di un paparazzo, fa incontri ed esperienze nella Roma mondana, cinematografara e intellettuale di via Veneto e dintorni.
C’è dunque una differenza profonda tra La dolce vita e le altre opere di Fellini, ma è una differenza di quantità, non di qualità. Vi appaiono personaggi di tragedia, vi si agitano passioni dalle proporzioni inconsuete che Fellini
non ci aveva mai raccontato, ma a cosa porta tutto questo accumularsi di materiali nuovi?
Sembra che saggiando fino in fondo - su misure mai prima raggiunte - la inconsistenza (la “vanità”) della realtà cosiddetta vera (l’idolo dei realisti, a cui tutto andrebbe sacrificato), Fellini voglia, una volta per tutte, sgombrare il campo dagli equivoci e darci la risposta che più gli sta a cuore, offrirci in forma definitiva, lacerante e incontrovertibile, la sua dichiarazione di fede. La realtà è questo vuoto, questo nulla, questa materialità vacua. Quindi la scintilla del sentimento, la vitalità dello spirito, il
vero esistere non può che scoccare nel momento della sconfitta della realtà stessa. La vita dell’anima
si accende come un palpito nel momento in cui si rimpiange - attraverso la documentazione agghiacciante della inconsistenza del reale - un bene perduto (Zampanò);
ma si accerta ancor più angosciosamente quando si è giunti attraverso l’esperienza “radicale” della materialità, al fondo dell’abiezione. Allora la vera realtà - il trascendente (finale di La dolce vita) - appare come una folgorazione; irraggiungibile e incomunicabile, ma appare.