“Quando la mano si racconta”

Nelle sale settecentesche del Museo di Villa Pisani - Stra (VE) Bruna Lanza presenta una trentina di dipinti su tela o su tavola e una decina di sculture realizzate con una tecnica mista di raku e pittura a freddo. Una sintesi degli ultimi cinque anni di operatività in cui l’artista sembra rivendicare la profondità di un linguaggio sotterraneo e primordiale, vitale e senza riserve. Il che non significa abbandonato alla cecità dell’istinto, ma liberato nella ricerca di spazi inquieti, mobili, plurimi. Non c’è mai nell’artista vicentina la volontà di disgregare il quadro, quanto invece quella di renderlo copioso, di espanderne le possibilità percettive. A volte si intuiscono perfino indizi figurali (paesaggistici), ma come fossero intaccati e consumati da un segno esplorante, investigativo che vuole entrare nel tessuto stesso delle cose. A volte è il gesto largo, plenario che pare farsi largo sulla superficie, ma non si ha mai la sensazione di una mano che calca, che traccia, di “un corpo che batte”, bensì di una mano che si muove come una carezza o come un volo rotante e di un corpo che comunica la sua pulsione leggera ad iscriversi, a scomparire nella pittura. Gli stessi titoli dei lavori (Sensazioni d’inverno, Profumo di energia, Tensione dinamica, ecc.) parlano di movimenti, di traiettorie, di dinamismi, ma come se fossero forze interiori, pigli segreti che spingono il gesto a passare e ripassare su se stesso, fino a creare autentici veli materici, veri aloni cromatici. L’obiettivo è sempre quello di rivelare uno stato di relazione, una misura, anzi una misurabilità dello spazio e, contemporaneamente proporne, per antitesi, l’incommensurabilità, l’immensità. Ma Bruna Lanza spesso ricopre questa sua dolce-ostinata “Action” con una sorta di inumazione color ocra o terra, quasi a volerla custodire, proteggere. E allora il quadro diventa una “Meditazione”, una narrazione notturna, senza con questo, trasformarsi in segno della rinuncia, della polvere, della scomparsa. Sulla pelle pittorica rimangono le testimonianze degli antichi gesti, le inquietudini delle passate movenze. Ed è come se il quadro portasse dentro di sé un’idea di metabolismo arcano o volesse evidenziare che l’origine di tutte le cose create è il profondo, l’oscurità.Un elemento, comunque, emerge da ogni lavoro di Lanza ed è il simbolo dell’orizzonte: non la prospettiva rinascimentale né l’indizio di un limite, ma una traccia che invariabilmente attraversa il quadro (non importa se in alto, in basso o al centro), diventando il luogo di infiniti scontri, passaggi, fusioni. Lì, la distanza viene come sabotata, ferita: si fa spazio di enigmi, dimensioni dell’altrove, sistema di corrispondenze, simbolo quasi sacrale, visto che in alcune opere è delineata perfino da una foglia d’oro. Negli ultimi lavori essa pare addirittura disfarsi, esplodere (un po’ alla maniera delle emozioni pittoriche di Turner): e, quindi, aprirsi a toni contrastanti, a mancanze di finitezza, a luminosità incandescenti. Eppure l’orizzonte rimane il grande appiglio visivo su cui lo sguardo corre, magari solo per precipitare o su cui si fissa, magari solo per rimanere abbagliato. E anche le sculture raku danno vita a degli “oggetti” che sembrano percorsi da una corrente d’aria impetuosa, che li piega, li arricchisce, li increspa. Anch’essi cioè non si lasciano imprigionare in una forma, in una figura. E se anche a volte possono assumere dei contrassegni funzionali (di piatto, di vaso), in fondo esibiscono un carattere straniante dato dall’accidentalità connessa al fare e al vocabolario cromatico che li ricopre. E’ un po’ il verbo estetico di tutto il lavoro di Bruna Lanza: quello cioè di affrontare l’opera come evento, come fatto nomadico, mai veramente concluso, mai veramente definitivo. La mostra “Quando la mano si racconta” è accompagnata dalla presentazione di un catalogo ragionato sul lavoro dell’artista con testo di Luigi Meneghelli.

Ufficio stampa del Museo Nazionale di Villa Pisani
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