In apertura lo sguardo prensile sulle cose del mondo di Papa Paolo III, le sue mani-artigli che stringono la sedia in cui siede, ed è il 1543. Data da cui si sceglie di partire pr affrontare il viaggio di un ventennio nell’opera sterminata del sommo tra i pittori.
L’ ultimo, l’ultimissimo Tiziano, è nelle atmosfere disgreganti della “Pietà” dell’Accademia. Immenso ex voto a scongiurare l’epidemia di peste che infuriava nel 1576, anno della sua morte. Tutto sembra franare, scomporsi, riapparire in altra visione, allucinata, per frantumazione di luce
Insieme a 27 ulteriori quadri considerati “ultimativi”.
Intitola “L’ultimo Tiziano - la sensualità della pittura” è una mostra che arriva dal Kunstistorische Museum di Vienna alle Gallerie dell’Accademia, a cura di Sylvia Ferino-Pagden e Giovanna Nepi Scirè, visitabile fino al fino al 20 aprile. Carrellata di capolavori assoluti e difficilmente frequentabili come la “Punizione di Marsia”, proveniente da Kromeriz, nella Repubblica Ceca.
Grazie a prestiti eccezionali, assicurati per un valore che sfiora un miliardo di euro, la mostra rappresenta un unicum in Italia per questo periodo dell’artista. Un percorso espositivo, articolato in tre sezioni, dedicate ai ritratti, ai temi profani e alla pittura sacra. L’allestimento, escogitato con felice intuito dall’architetto Barbara Accordi, articola in pannellature grigio vellutato che disorientano e amplificano lo spazio omogeneo dell’enorme sala-chiesa e fa risaltare in contrappunto le opere esposte.
Gli anni trenta, per Tiziano segnano un momento di difficile trapasso: di linguaggio, di intricati, complicati, a tratti mal gestiti rapporti di committenza tra papati e le corti più fastose d’Europa, fino al delicato e protratto rapporto con Filippo II di Spagna che gli attirerà tanti livori in laguna, al suo rientro. E perché no? agli attriti con l’amico letterato Aretino che non gli risparmia strali per il suo ritratto del 1945 giudicandolo “più abbozzato che finito…”. Nel 1546, dopo aver eseguito due fondamentali committenze ecclesiastiche: la “Danae” per il Cardinale Alessandro e l’inarrivabile fraseggio di “Paolo III e i suoi nipoti”, promette di far ritorno a Venezia dove, come riferisce Augusto Gentili nel suo intervento in catalogo, non tornò mai:” A Roma aveva avuto vitto, alloggio e molti onori; ma non risulta che le pitture gli siano mai state pagate”. E poi, fatto non irrilevante nel 1548 a Venezia esplode in tutta la sua carica eversiva Tintoretto, e tutto ciò che la sua pittura estrema spazza via di getto. Lo smagliante Paolo Veronese ad occupare il restante della scena. “Dov’era Tiziano? Ad Augsburg, naturalmente, a gratificare di ritratti e devozioni Carlo V, i suoi familiari e i grandi dell’Impero – annota maliziosamente Gentili –”.
Possiamo immaginarne le ire al ritorno in autunno. Per il sommo pittore, vezzeggiato e glorificato all’estero, non dev’essere stato facile accettare il confronto con le nuove generazioni, anche se gode ancora del credito e dei favoreggiamenti della classe dogale.
È interessante seguire la genesi del processo “mutogeno” in Tiziano, dalla presa di consapevolezza dell’esigenza di un cambiamento agli ultimi rarefatti approdi.
Rodolfo Pallucchini in un saggio pubblicato da Neri Pozza nel ponderoso volume su “Tiziano e Venezia” si sofferma ad indagare la lunga fase di mutamento nel linguaggio pittorico del Vecellio dopo la “rottura” manierista. Prende due quadri come riferimento “L’amor sacro e Profano” del 1515 e “Tarquinio e Lucrezia” del 1570.
Dagli anni’50 in poi Tiziano tralascia gli stilemi compositivi rinascimentali per sfociare in una diversa immediatezza di tratto e stesura. La pittura si fa estenuata, ogni intento naturalistico è soppresso. A questo proposito è molto esplicito il Boschini in un passaggio delle sue “Miniere della pittura veneziana” (Venezia 1674): “Tiziano inventa una tecnica più immediata, d’una pulsazione materica, dove ogni apparenza di spazio è soppressa; resta la trasfigurazione allucinata i un momento della passione umana, di una potenza degna di Shakespeare”. Gli “ultimi fuochi” sono anni di straordinario ritorno alla sua vena più intima e drammatica. La poetica di Tiziano trascende la pittura per rifugiarsi nelle zone più oscure di un travaglio spirituale ed umano. In fase conclusiva al suo intervento Gentili ci riferisce di un Tiziano immalinconito, solo nella sua bottega svuotata che dipinge per se o per destinatari virtuali: “Dinanzi alle opere degli altri che riempiono ormai chiese e scuole, deve aver capito da un pezzo che l’armonico linguaggio dei suoi tempi migliori, pur con tutti i progressivi aggiornamenti e sviluppi, non interessa più (quasi) a nessuno, e soprattutto non interessa più a lui; se qualcuno ancora lo vuole – e quel qualcuno è sempre uno, Filippo di Spagna.
Ogni tanto – dalla Spagna, dalla Germania, mai da Venezia – gli fanno balenare idee di nuove storie, o di repliche delle vecchie, e le lascia cadere. Sperimenta: prepara, abbozza, comincia, poi gira le tele contro il muro, e aspetta; non finisce quasi mai, ma in molti casi ritiene comunque d’aver finito. Cerca un linguaggio essenziale che ancora non esiste – che ancora nemmeno è stato pensato – per mantenere coerenza programmatica e dignità conoscitiva alle ultime storie e alle ultime poesie”.