All'arte è stato spesso rimproverato di essere rappresentazione del potere, della grandezza degli
imperi, del trionfo delle religioni. Di destinare al più uno sguardo compassionevole e consolatorio
alle miserie della storia, alla vita quotidiana delle classi subalterne. Sappiamo che non è esattamente
così: che Tiziano ha saputo mostrare le incertezze dei potenti, Grünewald il dolore della Passione,
Goya l'orrore della guerra. Che a partire dall'Ottocento si fa strada una maggiore e più puntuale
attenzione sia per i grandi fatti storici che per gli episodi della verità di ogni giorno: la Londra che
Dickens ispira a Dorè, la povertà materiale raffigurata nei dipinti di van Gogh, la critica sociale di
Ensor e poi di Grosz sono solo alcuni dei segnali che l'arte moderna offre alla coscienza collettiva.
Non è un caso che ciò avvenga man mano che la nostra civiltà si dota di altri strumenti di
raffigurazione: prima la fotografia (come quella che documenta i massacri della Comune di Parigi
del 1870), poi il documentario e la narrazione cinematografica, i cinegiornali. Più di ogni altro che lo
precede, il XX secolo è caratterizzato da una mole straboccante di immagini, che spesso condannano
lo spettatore a non saper distinguere, a non sapere valutare. Esaurito il compito di rappresentare la
società del proprio tempo, all'arte – dalle prime Avanguardie – sembrano spalancarsi altre
prospettive: la trasfigurazione del reale, l'indagine sulle strutture profonde dell'io, la definizione di
simboli meno retorici e più concettuali. Date queste premesse, la ricerca espressiva degli artisti può
davvero consentirci, in maniera efficace, di “vedere la storia”?
Questo è il problema che la mostra di Ca' Foscari affronta. Esemplificandolo per di più in una
situazione-limite: la Russia del potere zarista e della Rivoluzione, del realismo sovietico, delle
purghe staliniane, dei gulag, della Grande Guerra Patriottica contro il nazismo, della Guerra Fredda
contro l'Occidente, della stagnazione brežneviana, del “dissenso”, fino alla implosione dell'URSS e
al nuovo ruolo mondiale della Federazione Russa. Si tratta di una delle storie del nostro tempo più
dense di speranze e di tragedie, di progetti e di disillusioni: e osservandola si comprende che i ruoli
non sono nettamente distinti come sembrerebbe in apparenza. L'arte moderna, anche nelle sue
espressioni più innovative, raramente rinnega la tradizione precedente (in questo caso dal realismo
tardo-ottocentesco al millenario codice delle icone): ne fa memoria, ma i percorsi della memoria
sono spesso complessi. La memoria sconfina così con l'immaginario e può altrettanto facilmente
declinarsi nella mistificazione. In un suo volume recente (Gli occhi di Stalin), Gian Piero Piretto (che
fa parte del comitato scientifico della mostra) ha affrontato non a caso il rapporto perverso tra falsità
effettuale e verità dell'ideale, quando in URSS «vedere tornò a essere credere, non interpretare».
La mostra di Ca' Foscari documenta pertanto le straordinarie conquiste dei maggiori artisti russi del
Novecento, ma anche l'esigenza di un “radioso avvenire” da ottenere a ogni costo, l'importanza dei
processi di comunicazione rivoluzionari (con un'ampia selezione di manifesti politici), le architetture
fantasma del potere, la spietata realtà dei gulag, la cancellazione oltraggiosa di protagonisti
rapidamente caduti in disgrazia, il fiabesco ritorno alla memoria di certa pittura del “dissenso”. Per la
prima volta nel nostro Paese lo sguardo di una rassegna esamina tutti i principali aspetti della vicenda
artistica russa dell'intero secolo.
Ciò è stato reso possibile soprattutto grazie a due collezioni private italiane (quelle di Alberto
Morgante e di Alberto Sandretti: entrambe pressoché sconosciute e in larghissima parte inedite: una
milanese, l'altra abruzzese, a conferma della frequente bizzarria dei percorsi della storia). Sono due
raccolte costituite con intenzioni diverse, che a tratti si intersecano in maniera anche sbalorditiva, ma
che risultano anche molto efficacemente complementari, consentendo così una panoramica
essenziale ma esauriente del Novecento russo.
Risultato di lunghi anni di ricerca, delle competenze di un ampio comitato scientifico (dove
compaiono tra gli altri il decano degli studi di slavistica in Italia, Vittorio Strada, testimoni autorevoli
come Xenia Muratova e Viktor Misiano, docenti e dottorandi di cinque diversi atenei), la mostra non
si limita a presentare una sequenza di capolavori (con inediti di Chagall, Kandinskij, Malevič, Tatlin,
Končalovskij, Larionov, Gončarova, Majakovskij e Rodčenko) ma li affianca a una serie di
pertinenti e specifici contenuti multi-mediali, riprendendo la lusinghiera esperienza della mostra
della primavera 2009 sull'arte dell'Etiopia cristiana (“Nigra sum sed formosa”), con l'ambizione di
contribuire ulteriormente a un rapporto veramente interattivo tra fruitori e patrimonio artistico, una
linea di ricerca su cui Ca' Foscari si impegna da anni e che ha conseguito risultati ragguardevoli.