Nel 1910 Gustav von Aschenbach, anziano musicista fisicamente fragile e spiritualmente inquieto, giunge al Lido di Venezia per una vacanza. Incontra il giovane, bellissimo Tadzio e muore. Di questa storia d’amore Venezia è il teatro e il riflesso: come l’amore è malata, come l’amore è stupenda: una città-miracolo, che si annuncia a
chi viene dal mare in tutto il suo splendore. Ma, simile all’empire romain de la décadence, Venezia è una regina decaduta. Come succedeva in Senso, lo sguardo di Visconti evita programmaticamente di presentare la Venezia monumentale, cui concede soltanto una rapida visione d’insieme all’arrivo del vapore da Pola, per attardarsi
piuttosto sugli scorci pittoreschi della Venezia segreta e minore, dove lo splendore si corrompe in penombra e la bellezza si risolve in incubo. Perché questa Venezia, in verità così necessaria a quella “maggiore”, come un labirinto è sempre uguale a se stessa nella sua continua e radicale diversità.
David di Donatello (1971) e Nastro d’Argento (1972) per la miglior regia a Luchino Visconti.