Al di là della figura ammessa e riconoscibile, ogni performer compone un autoritratto attraverso un esercizio dai parametri dichiarati: l’esecuzione di una serie di materiali fisici corrispondenti a differenti stati corporei, mentali ed emotivi, enumerati in un ordine ogni volta diverso determinato da un’estrazione in diretta. Un elenco ipoteticamente infinito di azioni possibili, a comporre una minuziosa e sempre incompleta biografia della presenza e della corporeità. I materiali fisici evocano un’esperienza vissuta in un altrove rispetto alla scena, implicano un lavoro sull’assente: vengono da un training collettivo, dove ogni performer, dopo essere stato ‘agito’ dagli altri, ha trattenuto e rielaborato un certo numero di azioni, elementi base del suo repertorio.
Sulle pareti sono appesi dei fogli bianchi su cui ogni performer traccia ad occhi chiusi i contorni del proprio corpo, ricreandone l’anatomia e rivelandone la tessitura immaginaria. I disegni sono ricognizioni di un corpo credibile, un ‘disegnare se stessi’, in cui ogni segno, pur filtrato dalle proprie convenzioni rappresentative, è strettamente connesso con ciò che si percepisce, dal di dentro, come corpo proprio.