Roma, carcere di Rebibbia. I detenuti di massima sicurezza recitano Shakespeare: all’interno del carcere, infatti, viene messo in scena un particolare allestimento del Giulio Cesare in cui sentimenti e personaggi vivranno sulla scena
con gli attori e nelle celle con i detenuti.
Allo snodarsi di fronte a noi della vicenda raccontata
da Shakespeare, Paolo e Vittorio Taviani hanno qua e là accompagnato l’enunciato di piccoli casi privati di questo o quel detenuto, coronati dalla constatazione che alcuni di loro fanno sulla contemporaneità di situazioni, per
qualcuno anche personali, incontrate in un testo pur distante secoli: quasi a testimoniare dell’eternità
dell’arte. Si segue con il fiato sospeso.
Certo, grazie a Shakespeare, ma anche per quella interpretazione diretta, addirittura nuda che, nonostante queste o forse proprio per questo, ad ogni svolta, ad ogni battuta è di una intensità sempre lacerante. Specie quando, per rappresentare il coro dei Romani prima e dopo l’uccisione di Cesare, non si muovono masse in scena,
piuttosto si fanno ascoltare le invettive e le grida
di altri detenuti affacciati numerosi da finestre con le sbarre.