conferenze e convegni
La produzione dell’architettura, le istituzioni del comune e l’invenzione dello spazio

Common ground rappresenta per noi una sfida interessante, perché nelle sue proposizioni, interrompe dopo lungo tempo la diffusione dell’architettura come campo di emergenza dei talenti e delle firme, per ridare attenzione alla cultura architettonica e all’esistenza di un sapere disciplinare condiviso. In questo senso la proposta di Chipperfield sembra spostare il fuoco della discussione sullo spazio comune dell’architettura e sulla sua capacità di essere permeabile alla società. L’architettura e la produzione disciplinare non come invenzione particolare di un ristretto numero di talenti riconosciuti dalla critica, ma quale una vasta intelligenza diffusa – un general intellect - che si nutre delle relazioni di condivisione dentro e oltre i confini disciplinari. Se guardata con coraggio, questa affermazione è potenzialmente distruttrice dei dispositivi che hanno regolato la produzione architettonica almeno degli ultimi 3 lustri, dove poche firme e persone hanno capitalizzato un complesso corpus di ricerche, frutto di un modo di produrre collettivo dentro gli studi e di una condivisione delle idee che si nutrivano dei suggerimenti e delle suggestioni della società e delle sue trasformazioni. Da un lato l’accento sulle firme e sui pochi nomi ha oscurato – in una sorta di Comunismo del Capitale - la forma collettiva della produzione dell’architettura, costruendo una filiera del progetto basata sul disciplinamento del general intellect: nelle forme dello stage, della remunerazione precaria, della stratificazione dell’accesso ai concorsi pubblici in base ai fatturati preesistenti e non alla reale capacità di elaborare progetti. Dall’altro è stata veicolata l’idea che l’architettura fosse uno spazio dove opera una elite, separato e non coinvolto dalle riflessioni e decisioni della politica e della società; in questa separazione, si è abbandonata l’idea di intervento e reinvenzione pubblica della città e si consumata la riduzione dell’architetto, da intellettuale urbano a disegnatore creativo, utile alla immagine di brand e di specifiche filiere economiche. Oggi alcune delle esperienze sociali elaborate dentro la crisi – le forme delle occupazioni per i beni comuni, la cultura, le infrastrutture del welfare etc – stanno gettando le basi per prefigurare la possibilità di tornare a progettare lo spazio condiviso delle città e di nuove istituzioni del comune, oltre i paradigmi del pubblico e del privato. L’invenzione di un regime (di proprietà?) comune, fondato sulla condivisione e accettazione di forme d’uso e di disciplinamento dello spazio, apre in architettura nuovi campi di ricerca, dove è possibile immaginare lo spazio per le attività collettive dell’uomo oltre le forme normate dall’autorità pubblica o di soggezione al dominio privato. Il testo di presentazione della biennale registra l’affermazione del discorso sui Commons come alternativa dentro la crisi, anche in settori disciplinari specifici come quelli centrali delle trasformazioni del territorio; la sfida è aperta, sta agli architetti mettersi in gioco per tornare a pensare alle metropoli e come spazi condivisi del general intellect; sta alle esperienze dei commons avere la forza di intercettare nuove disponibilità e trasformarsi in committenza per costruire il comune oltre il pubblico.

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