L’ingresso della Croazia in Europa riporta alla memoria dell’opinione pubblica la tragedia adriatica; quella dei 350 mila italiani che hanno dovuto abbandonare l’Istria e la Dalmazia – vissuto, averi, attività – sotto la minaccia terroristica dei partigiani di Tito. E i nostri libri di storia ancora zitti.
Terre affacciate all’Adriatico, legate da sempre alla sponda italiana. I Romani fondano Aquileia 181 anni prima di Cristo e da quel porto, protetto dalla laguna di Grado, partono per Costantinopoli e Alessandria d’Egitto. Irradiano le loro strade verso le Alpi e i Balcani, l’Istria e la Dalmazia; fondano città dall’impronta inconfondibile, come Pola, Zara e Spalato – la patria di Diocleziano – Sebenico e Ragusa. Dopo Bisanzio e il sistema feudale di Carlo Magno, per otto secoli a partire dal Mille l’impronta sarà quella della Serenissima Repubblica di Venezia. Fra il 1943 e il 1954 gli Italiani lasciano la terra in cui sono nati, e dove quasi tutti si sono fatti onore, nelle mani di sloveni e croati. Su mezzi di fortuna e con mille traversie approdano a Trieste, Udine e Venezia, poi in 140 campi di raccolta, spesso ospitati con insofferenza. Le associazioni che li rappresentano hanno più volte avanzato le loro rivendicazioni, con scarso esito. Fino alla via della riconciliazione che i tre Presidenti Napolitano, Turk e Josipovic hanno aperto nel luglio del 2010, celebrata con il grande concerto di Muti in piazza dell’Unità a Trieste.
Presentazione del libro Storia dell’Istria e della Dalmazia
(Edizioni Biblioteca dell’Immagine), di Paolo Scandaletti.
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