‘Sbarca in laguna…’! È il puntuale anagramma del nome di Gianluca Sbrana che giunge dalla Carrara dei bianchi marmi alla placida ebete ex Serenissima, scivola sullo specchio d’acqua paludosa della laguna, surfando con i piedi inforcati sulla sua tavolozza impastata dei colori tra i più acidi e cangianti, un magma di tinte antitonali fiondate senza mirare direttamente nell’iride che strabica l’occhio. Nel suo “frigidare” conserva al fresco lezioni di “Cannibale” con tutto il “Il Male” tra il diabolico bene et religiose extasy. Con una mano impasta con Pazienza Mattioli e Scozzari, è Liberatore di Tamburini filtrato da Giacon e mescola il metodo “paranoico-critico” daliniano, suscettibile di sensibilità alla Bosh ma immerso nei paesaggi sublimi di Turner nella tonalità atmosferico-paesaggista giorgionesca. Con l’altra mano smanetta il joipad in consolle, muove dinamismi da ultimo schema di video giochi surreali infantili, che di parvolo bambino mantengono solo la totale amoralità. Dalle figure ricorrenti di pupazzi senza collo con la testa sospesa senza fili dalle nubi, alle fiammelle della resurrezione della pittura inventa, mantenendo gli stessi ingredienti teletrasportati dal proprio personale pianeta, architetture inutili et installazioni ambientali. Immerge nel buio cieco dell’oblio macchine e sculture imbevute nella tavolozza del cranio dove mischia acrilici fluorescenti e colori luminescenti inchiostrati nella mielina trattati con artifizio da diligenti pennellate svisate tra il pelo di cinghiale e la coda del mouse.