Un giorno Daniele Del Giudice mi raccontò
che un regista francese era venuto a
trovarlo a Venezia. Voleva fare un film
tratto da Lo stadio di Wimbledon. È molto
giovane, mi disse. Che ne pensi?, mi domandò.
Me lo domandò perché sapeva
che Lo stadio di Wimbledon è il “mio” romanzo,
è stato argomento della mia tesi e
ogni anno lo ripropongo ai miei studenti
di Scrittura creativa all’Università di Padova.
Non ricordo bene cosa risposi, ma credo
che pensai che soltanto la passione,
l’energia e la sventatezza di un giovane potevano
portare al cinema quel romanzo
apparentemente privo di trama, apparentemente
privo di personaggi avvincenti.
Insomma: apparentemente così poco romanzo.
Però morivo dalla curiosità. Mathieu
Amalric era quasi sconosciuto in Italia,
allora, lo si era visto in qualche film,
perché da sempre affianca l’attività di regista
a quella di attore (Lo scafandro e la farfalla
di Schnabel, Venere in pelliccia di Polanski,
Grand Budapest Hotel di Anderson).
Con Daniele agli inizi, quando il
film era soltanto un’ipotesi, giocavamo a
immaginarci l’attore protagonista, le scene,
i dialoghi e Trieste, che Amalric ha
mostrato con la stessa precisione, la stessa
empatia presente sulle pagine del romanzo.
Io, invece, cercavo di immaginare soprattutto
la scena finale, quella dentro il
Campo Centrale di Wimbledon, perché
sapevo sarebbe stato impossibile entrare a
girare dentro al tempio del tennis. Fu formidabile
la scelta di Mathieu di trasformare
l’io narrante – maschile nel romanzo –
in femminile, la bravissima Jeanne Balibar,
facendo svanire tutte le nostre immaginazioni
sul possibile attore. E alla fine
trovammo pure l’escamotage per girare
l’irrinunciabile ultima scena dentro lo stadio.
In Italia il film venne proiettato soltanto
una volta: inaugurò il Trieste Film
Festival il 18 gennaio 2002. Ora, finalmente,
lo vedremo a Venezia, con il regista
in sala, nell’ambito del festival letterario
Incroci di civiltà. (Testo di Roberto Ferrucci)