Nel film 'Deus e o diabo na terra do sol' (Il dio nero e il diavolo biondo)ritroviamo un nuovo modo di narrare - macchina a mano nei set naturali, volti e corpi autentici - le contraddizioni più aspre del Brasile, visualizzando nel fascinoso sertâo del Nordest straziato dalla siccità e dalle secolari ingiustizie sociali le figure di una cultura contadina intrisa di misticismo, di arcaismi religiosi, di rituali violenti: Manuel il vaquero, che uccide il padrone e le sue guardie per sfuggire con la moglie Rosa dallo sfruttamento; il beato Sebastiâo, il dio nero che annuncia miracoli e predica la morte sul Monte Santo; Corisco, il diavolo bianco campione di stupri e spietate vendette; Antonio das Mortes, il giustiziere implacabile ingaggiato dai rancheros. In questa lunga ballata ritmata dalle strofe di un cantore cieco (con la musica e la voce di Sergio Ricardo) le strade pietrose e insanguinate s’intrecciano, si confondono, non salgono al paradiso, semmai suggeriscono la necessità vitale di trovare un’altra pista, il sogno dell’utopia individuale e collettiva, quando “o sertão vai virar mar”, il deserto tornerà ad essere mare e l’uomo si libererà da solo, senza demoni o dei. Con Terra em transe (Terra in trance, 1967) Rocha affronta in maniera ancora più personale la condizione tragica dell’intellettuale brasiliano – la figura emblematica del poeta e giornalista Paulo, colpito a morte dalla polizia, che rivive in flashback, delirando, le proprie indecisioni politiche fra un candidato conservatore e uno liberale, entrambi corrotti e dalle molte promesse elettorali mai mantenute – stretto fra la morsa del militarismo e la tentazione della lotta armata con il popolo e per il popolo. Nella provincia immaginaria di El Dorado, dove le contrapposizioni di classe sono assai aspre, va in scena un teatrino stilizzato di giochi e balletti di palazzo, di scontri barocchi più che ideologici, di festini decadenti, di rivolte di piazza represse con durezza, di amari ripiegamenti. Lontano dalle commedie musicali e dai melodrammi borghesi del passato, Rocha, con la mente rivolta all’amato Godard e uno sguardo profondo al magistero di Orson Welles, confida allo schermo con rabbia e passione l’anatomia di una sconfitta. Nel 1969 O dragâo da maldade contra o Santo Guerriero, meglio noto fuori dal Brasile come Antonio das Mortes, riportò dal Festival di Cannes il premio per la miglior regia e diffuse nel mondo i bagliori rivoluzionari del Cinema Nôvo (al tramonto) e del suo capofila che presto avrebbe lasciato il proprio paese sempre più sprofondato nella dittatura militare. Ritornava come protagonista il personaggio già apparso nel Dio nero, il cacciatore di taglie al soldo degli allevatori e degli agrari, che però mutava di segno a contatto con la miseria e l’oppressione dei villaggi contadini e puntava le armi, in simbolica unione con il maestro e il prete, contro il potere e i suoi sicari. Mutuando la lezione western di Sergio Leone e l’iconografia della leggenda di San Giorgio e il Drago, Glauber Rocha rinverdiva l’epica del sertâo affrescandola con la policromia del - l’Eastmancolor, punteggiava la storia di duelli spettacolari, di canti e balli mistici, di beati della montagna in estasi e sante invasate, a un tempo affascinato e perplesso di fronte alla credulità popolare. Ma la lotta è ancora lunga e ai margini del deserto, lungo una strada asfaltata che annuncia la modernità, Antonio il solitario rinviene un segno nuovo e minaccioso dei tempi, la conchiglia gialla della Shell. E Glauber il ribelle prendeva la via dell’esilio.