Se venisse scritta una storia della filosofia, completa dei propri risvolti psicoanalitici, questa non potrebbe prescindere dalla figura di David Cronenberg. Il
settantunenne regista canadese è infatti colui che meglio, più a fondo e più spietatamente nonché più “politicamente”,
ha saputo riflettere sui rapporti tra corpo
e psiche, inconscio e macchina, carne ed anima, elaborando via via il concetto di “mutazione” come fenomeno fisico, psichico e filmico insieme.
Semmai può sorprendere che proprio affrontando direttamente in 'A Dangerous Method' (2011) le due figure-cardine della psicoanalisi del ‘900, Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, il cineasta non sia riuscito ad evitare le trappole del
“biopic” completo di stereotipi e impacci narrativi; ma è ben altrove che Cronenberg ha affondato il bisturi del
proprio sguardo lucido e implacabile. E la metafora non è affatto casuale in quello che per molti aspetti è il suo capolavoro, 'Inseparabili' (1988), straordinaria riflessione sul “doppio”, sulla scienza e sulla scomposizione della realtà-corpo. Corpo che è il nucleo incandescente
dei suoi primi film, per comodità attribuiti al genere horror come 'Brood la covata
malefica' (1979). Così come Il 'pasto nudo' (1991 dove si trova la simbiosi perversa tra uomo e insetti. I corpi cronenberghiani si modificano in corso d’opera, mutano, si autodistruggono e si mescolano con altri materiali in un’ossessione compulsiva che nasconde un fortissimo
istinto di morte; così è in 'Crash' (1996), film estremo, radicale sotto ogni punto di vista nella sua equazione fra
Eros e Thanatos. E così è 'Videodrome' (1983), un manifesto sulla degenerazione della tecnologia e della televisione.
Regista “politico”, si diceva: capace cioè di intercettare anomalie e distorsioni della società in contesti alienanti, come in 'eXistenZ' (1999) o in 'Cosmopolis' (2012), che inseriscono individui spiazzati in uno sfondo surreale. Follia e normalità, ovvero quell'infinito territorio
del possibile che è la mente umana, sono esplorate in 'La zona morta' (1983), dal romanzo di Stephen King, ma sono anche, quasi ineluttabilmente, la violenza e la sua rappresentazione a costituire un perno centrale
della poetica cronenberghiana. 'A History of Violence' (2005), ne é quasi un manifesto programmatico, ancora una volta inscritto nella realtà del “qui ed ora”,
della famiglia, della provincia americana, della condizione borghese.