A trent’anni dalla scomparsa, Elio Petri continua a rimanere un personaggio scomodo della storia culturale italiana, inspiegabilmente relegato a capro espiatorio, a scheletro nell’armadio della coscienza comune nel
contesto di un controverso periodo storico con il quale non si sono fatti ancora i conti.
La sua militanza di sinistra, iniziata in giovane età e proseguita per tutta la vita col suo cinema, pur con i suoi alti e bassi (l’indignazione per i fatti d’Ungheria del 1956), lo porterà, durante la carriera registica, a difendere aspramente i suoi ideali, entrando in collisione anche con i sostenitori di un tempo.
Più volte viene infatti attaccato dai critici della sua stessa parte politica: da ricordare a tal proposito l’episodio del 1971 a Porretta Terme quando il regista Jean Marie Straub invocò la distruzione de La classe operaia va
in paradiso considerato reazionario.
Approda al cinema come sceneggiatore e aiuto regista di Giuseppe De Santis per Roma ore 11, per il quale realizza un’inchiesta giornalistica, divenuta poi un libro: già in
questo lavoro si denota una forma di scrittura che travalica la visione neorealista del “pedinamento”
zavattiniano, giungendo ad una ricerca attiva sul campo all’interno di un contesto di cinema popolare. Dopo dieci anni di gavetta, inizia a dirigere film suoi: non
usa i metodi rivoluzionari della Nouvelle Vague,
ma gira in modo tradizionale attuando il mutamento all’interno del meccanismo filmico. Già con il suo primo lungometraggio, L’assassino del 1961, incappa nelle restrizioni della censura che negli anni a venire gli renderà la vita impossibile: l’ambiguo ispettore
di polizia, interpretato da Salvo Randone, non piace per il suo modo sregolato di seguire le indagini. Ma è proprio questa perdita d’innocenza nei confronti delle istituzioni la grande innovazione insita nel cinema di Petri
a livello contenutistico. Gli attori sono maschere tragiche e distorte che interpretano personaggi dalle origini umili in una società corrotta e alla deriva; il suo attore feticcio, più che un Gian Maria Volonté, straordinario
e istrionico, è sicuramente Salvo Randone alter ego del regista.
In tutti i suoi film persiste un germe autobiografico
che rivela le origini proletarie (la figura del padre stagnino che ritorna più volte), l’ossessione per la morte sempre dietro l’angolo (I giorni contati ma soprattutto l’ultimo film testamento, auto-prodotto con Giannini, Buone notizie), la disfatta della classe politica responsabile della distruzione della società civile, il potere che reprime sempre e comunque i più deboli. L’incontro
con Ugo Pirro per la stesura della sceneggiatura,
tratta dal romanzo di Leonardo Sciascia A ciascuno il suo, si rivelerà poi fondamentale nella carriera di Petri: il loro incontro produrrà opere stilisticamente innovative e dai contenuti esplosivi.
Mentre altri registi, a lui contemporanei, preferiscono
abbandonare il terreno minato del cinema politico, Petri resta coerente, portando il genere verso un’astrazione autoriale postmoderna, quasi metafisica: solo dopo l’insuccesso de I giorni contati tenta una strada più commerciale con il produttore Dino De Laurentis
che non volle produrgli I mostri, troppo antidemocristiano,
optando per Il maestro di Vigevano al quale stava lavorando Dino Risi; ma si tratterrà di un episodio isolato.
Nonostante sia stato pluripremiato a livello internazionale e riconosciuto quindi come autore di primo livello, nel nostro paese è calata una coltre di oblio sulla sua figura: molti suoi film sono letteralmente scomparsi
dalla circolazione, non esistendo né su supporto
video né meritando alcun passaggio televisivo. Viva, invece, e attuale più che mai, la sua opera necessita di un’opportuna e utile rivisitazione.