C’è una lettura recente, illuminante, che
aiuta a comprendere la figura e la mitopoiesi
di Orson Welles forse meglio di qualsiasi
analisi dotta o saggio: ed è A pranzo con
Orson (Adelphi), una serie di conversazioni
raccolte negli anni ai tavoli del “Ma Maison”
di Los Angeles tra il regista di Quarto potere
e lo sceneggiatore e regista inglese Henry
Jaglom. In esse, al netto dei giudizi fulminanti
e sprezzanti emessi a raffi ca su colleghi,
attori, attrici, star e personaggi vari, in una
sorta di premeditata e rabbiosa iconoclastia,
quel che emerge nettamente è la spaventosa,
colossale solitudine in cui l’uomo e il regista
Welles erano immersi. Una solitudine sia
cercata che subita, un isolamento dentro la
macchina hollywoodiana in parte frutto di
un ego smisurato e fuori controllo, in parte
prodotto della diffidenza atavica che l’industria
aveva sviluppato fin da quel 1940 in cui
un ragazzino ventiquattrenne aveva consegnato
il film forse più celebre della storia del
cinema, in parte ancora requisito essenziale
per la costruzione di quell’Utopia di perfezione,
di quella intangibile “grandeur” che è
alla base di tutti i progetti wellesiani: tutti,
è bene ricordarlo, incompiuti, irrealizzati o
manomessi dai produttori, al punto da poter
affermare che in pratica Welles è davvero autore,
totalmente padrone e controllore, di un
unico suo film: il primo.
A cent’anni dalla nascita e trenta dalla scomparsa,
ciò che rimane di questo “genio maledetto”
della creazione filmica non è tanto
una filmografia quanto un modo di pensare
e concepire il cinema, nel quale la realizzazione
di un progetto sembra condannata inesorabilmente
a soccombere dinanzi alla sua
concezione, quasi che il suo farsi non potesse
in alcun modo competere con la sua progettazione,
di gran lunga più complessa e avventurosa.
Per questo l’opus wellesiano è una
serie grandiosa di incompiute, di film terminati
rocambolescamente (si pensi a Otello e
Macbeth, dal suo adorato Shakespeare), di
scontri frontali – e sempre perdenti – con i
produttori, di set provvisori, smontati e rimontati,
e di idee rimaste nel cassetto.
Anche il suo lavoro di attore, spesso al servizio
di film mediocri se non pessimi, è parte
integrante dell’Utopia e della Dismisura
wellesiane. Pur trascurando l’aspetto strettamente
merceologico (Welles mollava la
realizzazione di un film a metà per andare a
procurarsi i soldi necessari a finirlo recitando),
le infinite apparizioni di quest’uomo che
sin da ragazzino amava truccarsi da vecchio,
che dissimulava sotto protesi e make up improbabili
il proprio naso che odiava, che ha
incarnato patriarchi, generali, prelati, criminali,
poliziotti corrotti, personaggi mitologici
e naturalmente registi, rappresentano una
galleria di maschere intercambiabili e fiammeggianti,
nelle quali il lavoro dell’attore si
fondeva in una profonda inquietudine, in
un superiore cinismo e in un gusto teatrale
per l’eccesso. L’attore sbeffeggiava il regista
e il regista umiliava l’attore, in un pirandelliano
gioco delle parti dal quale era bandita
ogni pulsione “etica” in favore di quello che
è sempre stato il nucleo centrale del suo cinema:
la finzione. F for Fake, “F” come falso,
appunto. La sola verità che Orson Welles riconoscesse.