Festival Alkan, Il Pianoforte Visionario

Se è vero che Alkan dà prova lungo tutta la sua carriera di uno spiccato gusto per la musica a programma mediante i titoli suggestivi e le numerose indicazioni di cui sono costellati i suoi spartiti,si noterà che egli privilegia l’evocazione (talvolta misteriosa) alla semplicistica descrizione narrativa prediletta dai suoi contemporanei: Le Temps qui n’est plus, Vivante, Increpatio, Pseudo-naïveté…

In questo senso Alkan perpetua l’arte di un Couperin e annuncia la poesia ineffabile della scuola simbolista, scavalcando un secolo che probabilmente giudica sotto molti aspetti volgare e puerile. Il suo immaginario di pianista lo spinge a ogni sperimentazione per trovare la “sensazione giusta” ed è per questo che alcuni suoi contemporanei non esiteranno a ribattezzarlo il “Berlioz del pianoforte”.

L’omaggio pronunciato nel 1857 da Hans von Bülow, genero di Liszt, rammenta con pertinenza quanto Alkan si fosse fatto promotore di nuove sonorità pianistiche mentre negli stessi anni in cui Berlioz rivedeva senza complessi le acquisizioni dell’orchestrazione moderna. Era del tutto naturale che egli si dedicasse anche a trascrivere per il proprio strumento numerose pagine orchestrali, in particolare alcuni concerti di Beethoven e Mozart. Ma in lui – come in Liszt – talvolta l’arrangiamento trascende il modello e trascina l’ascoltatore in una rilettura di strabiliante virtuosismo.

In ogni caso non v’è dubbio che il repertorio studiato da Alkan sul suo pianoforte a pedaliera (Bach più di chiunque altro) faccia di questo pianoforte il più fertile terreno di sperimentazione del compositore, che in esso vede un formidabile mezzo di trascendenza: dopo le demoltiplicazioni sonore esaminate nella Sonatine, ne Les Quatre Âges, nel Concerto o nella Symphonie, non rimaneva altra possibilità – senza ricorrere a quattro mani salottiere o a due invadenti pianoforti – se non aggiungere a due braccia molto impegnate un’eroica pedaliera talvolta quasi concertante.

Perché l’oblio? Al di là di un carattere poco socievole – che tuttavia non fu l’unico a possedere – Alkan si è emarginato innanzitutto per la difficoltà di una scrittura pianistica che rasenta talvolta l’impossibile. In questo senso il pianismo alkaniano si distingue dai pirotecnici effetti di Liszt, sempre più facili di quanto non sembri all’ascolto. Ma com’è diversa l’ispirazione tecnica, fertile e originale, di quest’ultimo. Ma forse l’altra ragione di tale fatidico oblio è da trovarsi in quella ricerca del senso recondito delle cose, in quel gusto per il tempo sospeso (che si esprime attraverso opere di durata inconcepibile per l’epoca), in quel rifiuto della facilità e della concessione.

Perché in Alkan perfino le miniature da salotto combinano l’inatteso e lo sperimentale – in una parola il “genio” – a banalità che sono solo specchietti per le allodole. Ci sarebbe forse voluta al compositore una più rilevante produzione di opere sinfoniche, liriche o cameristiche per imporsi stabilmente nel repertorio? I due Concerti da camera con orchestra sono effettivamente poca cosa in confronto alle opere concertanti di Liszt e di Chopin, per non citare Schumann, Grieg o Brahms. Viceversa, il Duo concertant per violino e pianoforte e la Sonate de concert per violoncello spaventano molti interpreti a causa delle loro difficoltà. Ciò non toglie che il repertorio pianistico di Alkan costituisca da solo un continente che non ci stancheremo di riscoprire.

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