Un messicano da oscar: Alejandro Gonzalez Inarritu

Il cinema messicano non è mai stato rappresentato così bene a Hollywood come negli ultimi quindici anni, da quando la triade di registi - ma anche autori, montatori e produttori - formata da Alejandro González Iñárritu, Alfonso Cuarón e Guillermo Del Toro ha cominciato a mietere consensi al botteghino e all’Academy, superando il muro di Tijuana come solo il piano sequenza di apertura de L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) era riuscito a fare. Virtuosismo ed esistenzialismo, uniti a una feroce critica sociale e politica nata negli anni del governo di Vicente Fox, ex presidente della Coca Cola latinoamericana passato nel 2000 a dirigere il Messico contribuendo ad avvicinarlo al dollaro, sono i caratteri comuni a questo cinema di frontiera, intercettato per novità e portata proprio a Venezia.

E non c’è dubbio che il talento ci sia. Nella duttilità della forma, in primis: un cinema capace di piegare il genere all’autorialità. E viceversa.

Se l’angoscia sartriana è leggibile in filigrana nelle sue opere, che da Amores Perros (2000) pongono il soggetto in relazione con l’assurdità e la fondamentale indecidibilità dell’esistenza, altrettanto presente e determinante è nel cinema di Iñárritu l’impronta cattolica, dovuta forse alle scuole frequentate in patria per volere della madre, fervida credente. Quello di Iñárritu, che visse in prima persona un destino beffardo dopo il crollo finanziario del padre, banchiere fallito in lotta per la sopravvivenza nello spietato Messico post rivoluzionario, è un cinema in cui non si cessa mai di chiedersi, insieme ai protagonisti, cosa sia bene e cosa male. Un cinema che, grazie all’incontro con lo scrittore, sceneggiatore e regista Guillermo Arriaga – con Iñárritu dagli esordi fino a Babel (2006) - si è strutturato attorno alla vertiginosa prospettiva della fatalità, sondandone le possibilità narrative e sfidando la tenuta registica di un autore sorprendente che, film dopo film, ha dimostrato di aver fatto sua la lezione di Proust, Joyce e Borges, divorati nel corso di un viaggio giovanile lungo un anno a bordo di una nave mercantile. Si chiarisce allora il senso della svolta all’insegna dell’intensità e dello scavo a partire da Biutiful (2010), film nel quale il dramma dell’uomo si fa carne e il cancro sembra compiere l’ontogenesi del genere umano, inevitabilmente votato a compiere il male.

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