Come Roman Polanski stesso ricorda nel recente documentario A film memoir (ideato da Andrew Braunsberg e diretto
da Laurent Bouzereau, 2011) la sua vita è stata quella del Fuggiasco (Carol Reed, 1946), in fuga dal Male ma anche –
dopo il tragico 1969 dell’uccisione di Sharon Tate – da sé («a lungo non sono stato più me stesso»). Fuggiasco e clandestino a sé e agli altri, il giovane ebreo Roman lo è stato sin dall’inizio, dalla sua adolescenza nel ghetto di Varsavia, durante l’occupazione nazista, segnata dalla deportazione e dalla morte dei giovani amici e della madre ad Auschwitz, dalla prigionia del padre sopravissuto e
tornato da Mauthausen alla fine della guerra. Da quel momento Polanski ha mostrato di aver appreso l’arte – dolorosa quanto necessaria – di sapersela cavare
da solo, tra fughe e continue palingenesi.
Un’esperienza esistenziale che si riversa nel suo cinema, tutto all’insegna della sopravvivenza e della resistenza, di
cui Il pianista diventa il paradigma eponimo, un cinema che anche quando ci scherza su delinea sempre i contorni del
Male, lo esorcizza a tratti ridendo (Per favore… non mordermi sul collo), altre volte mettendone in risalto i pregiudizi sociali (Chinatown, Carnage), più spesso
cogliendone i diversi aspetti della vita quotidiana (Tess, L’inquilino del terzo piano), grotteschi o al limite della follia. Il clandestino è la figura classica del cinema
di Polanski sin dall’esordio de Il coltello nell’acqua: in ognuno dei suoi film egli vi affida il compito di far esplodere delle tensioni accumulate e latenti, che
giungono all’apice ne Il Pianista. Ma il tema del vagabondare esistenziale, in cui in filigrana traspare la figura dell’ebreo errante, caratterizza – sia pure con esiti
alterni – la produzione di Polanski degli anni ‘80-‘90: si pensi a Frantic o a Tess, non solo due riletture, di Hitchcock e di Hardy, ma vere e proprie allegorie dello
spaesamento unite al rimpianto per un mondo perduto, idealizzato nella irreale magia delle origini. Con la figura del pianista Szpilman (ispirato all’omonimo
concertista Władysław e ai ricordi giovanili del regista), Polanski dona al suo personale vagabondare erratico una dimensione collettiva, allarga all’Olocausto il suo dramma individuale. Il rimedio, l’antidoto a questo perenne dissidio tra Bene e Male – come nei migliori romanzi d’appendice ottocenteschi – alla fine c’è. È l’arte, e in particolare il cinema, ad assumere la funzione catartica di
ridare libertà e dignità ai protagonisti del dramma della Storia, dando nel contempo alle immagini il valore reale della testimonianza.